ESPLOSIONE D'AMORE

Karin Maria Boye 

Nata nel 1900 a Göteborg da una famiglia benestante (il padre Carl Fredrik “Fritz” Boye era ingegnere civile) mostrò sin da giovane la sua inclinazione per la scrittura. Nel 1909 la famiglia si trasferì a Stoccolma, dove frequentò il Liceo, e dove ricevette il suo primo premio per un racconto e nel 1915 a Huddinge, in un quartiere appena costruito immerso nella natura. Qui cominciò a scrivere le liriche giovanili, novelle e pezzi teatrali.
In un campo estivo cristiano nel 1918 incontrò Anita Nathorst, di otto anni più grande, figura di fondamentale importanza nella vita di Karin. Anita aveva studiato teologia e scienze umanistiche all’Università di Uppsala e divenne grande amica di Karin nonché oggetto del suo amore omosessuale tuttavia mai ricambiato (si trovava a Göteborg proprio per assistere lei, morente di cancro, quando si tolse la vita).

Nel 1920 Karin prese la maturità e nel 1921 divenne insegnante. Si trasferì poi a Uppsala per studiare greco, lingue nordiche e storia della letteratura.

Debuttò come poetessa nel 1922 quando pubblicò la raccolta di poesie Moln (Nuvole), meditazioni su Dio, sulle carenze della vita e sul suo stesso futuro.

Nel 1927 entrò a far parte della redazione del periodico pacifista Clarté e viaggiò parecchio.Visitò l’Unione Sovietica nel 1928, la Germania (Berlino) nel 1932-1933 e la Grecia nel 1938. Durante la permanenza a Berlino prese la decisione di affrontare la sua omosessualità in modo più aperto rispetto al passato. Il matrimonio con Leif Björk che aveva sposato nel 1929 naufragò defintivamente in quegli anni e quando tornò in Svezia era, a detta degli amici, decisamente cambiata. Dopo poco invitò una giovane donna ebrea di origini tedesche Margot Hanel che aveva incontrato a Berlino e che visse con lei fino alla sua morte (questo in un’epoca in cui l’omosessualità era ancora un reato in Svezia).

Karin era da tempo consapevole della sua inclinazione omosessuale o bisessuale ma faticava ad accettarla, in quegli anni non si parlava apertamente di omosessualità (un argomento considerato un tabù). Già negli scritti della sua adolescenza spesso identificava se stessa come uomo e la sua inclinazione omosessuale generò in lei sempre grossi conflitti interiori.

Una delle sue poesie più conosciute è “Ja, visst gör det ont när knoppar brister” (Certo che fa male quando i boccioli si schiudono) della raccolta För trädets skull (Per il bene dell’albero)

Karin si suicidò nell’aprile del 1941 per ingestione di sonniferi. Negli ultimi mesi, secondo il racconto degli amici ed in base ai suoi ultimi scritti, i suoi sentimenti di tensione rispetto alla vita avevano portato ad una una sempre maggiore instabilità mentale. Il suo corpo senza vita fu trovato in prossimità di una grosso masso a nord di Alinsgsås (vicino a Göteborg) dove era andata per assistere l’amica Anita Nathorst morente (morì nell’agosto dello stesso anno). Un mese dopo il suicidio di Karin anche la fedele amica Margot Hanel si tolse la vita.
 La poesia di Karin Boye è un colpo al cuore, non ha nulla di ingenuo o metafisico, ne tantomeno presenta toni familiari o confidenziali. È una poesia brutale, è sofferta e le sue parole risentono degli echi di una Saffo matura, vittima della consapevolezza che l’amore è una sofferenza corporea, che avvelena non solo il sangue, ma anche la pelle, anche l’odore. Il pathos della sua poesia nasce dagli studi greci che tenne presso l’Università di Upsalla. Interpretando il ruolo di poetessa maledetta morì suicida, forse nell’Aprile del 1941, collocandosi tra le infinite schiere dei poeti suicidi. Anche nella morte, fu capace di conservare quel senso tragico e angosciante che si avverte nelle sue poesie: imbottita di sonniferi, il corpo è stato ritrovato su una collina da un agricoltore. Accoccolata su un masso, come se dormisse. Quel masso è oggi la sua lapide.

 CERTO CHE FA MALE

Certo che fa male quando i boccioli si schiudono.
Perché dovrebbe altrimenti esitare la primavera?
Perché dovrebbe tutta la nostra bruciante nostalgia
restare legata al pallido e amaro gelo?
Eppure il bocciolo fu involucro per tutto l’inverno.
Che cosa c’è di nuovo ora che intacca e preme?
Certo che fa male quando i boccioli si schiudono,
male a ciò che cresce
e a ciò che racchiude.

Certo che è difficile quando le gocce cadono.
Tremanti d’inquietudine stanno sospese, pesanti
si aggrappano al ramoscello, si gonfiano, scivolano
– il peso le trascina giù, per quanto cerchino di aggrapparsi.
Difficile essere incerti, timorosi e divisi,
difficile sentire il baratro che attira e richiama
e tuttavia restare lì e solamente tremolare
– difficile voler restare e volere cadere.

Allora, quando il peggio è arrivato e più niente aiuta,
si schiudono esultando i boccioli dell’albero.
Allora, quando non c’è più il timore che trattiene,
le gocce sul ramoscello cadono scintillando,
dimenticano la vecchia paura del nuovo
dimenticano l’apprensione passata per il viaggio
– sentono per un attimo la loro più grande sicurezza,
riposano in quella fiducia
che crea il mondo.

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"Si ha un bel parlare dell'amore come di un concetto antiquato e romantico, ma io temo che esista, e che contenga, fin dall’inizio, un elemento di indicibile dolore. Un uomo è attratto da una donna, una donna da un uomo, e per ogni passo che compiono avvicinandosi, sacrificano una parte di sé; una serie di sconfitte, dove non si aspettavano che vittorie"


Come posso dire se la tua voce è bella.
So soltanto che mi penetra
e che mi fa tremare come foglia
e mi lacera e mi dirompe.
Cosa so della tua pelle e delle tue membra.
Mi scuote soltanto che sono tue,
così che per me non c'è sonno nè riposo,
finchè non saranno mie.


Commenti

  1. Molto belle e al contempo dure e frastagliate di amore e di dolore, le parole delle sue poesie sono carne, che mentre vive si sente tagliare dentro, quindi vita e dolore assieme, dove a volte primeggia l'una a volte l'altra ma quando alla lunga è la seconda a vincere, arriva la "Morte"

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  2. Profonda riflessione sul dolore del presente che dimentica il passato e spera disperatamente un futuro, pur consapevole che ogni transizione ciclica è comunque, po' paradossalmente, un'incognita che sorprende.

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